Il passaggio di Khvicha Kvaratskhelia dal Napoli al PSG è stata una delle principali operazioni del mercato invernale, sempre parco di trasferimenti eclatanti. Generalmente siamo abituati a vedere semplici comparse o comprimari arrivare e partire come se fossero pacchi postali. Nient’affatto abituati alle porte girevoli relative ad affari dalle innegabili connotazioni tecniche, nonché emotivo-sentimentali. Un salto ambizioso, quello di un talento che lascia il sole di Partenope, per abbracciare le luci della Ville Lumière.
In ogni caso, vantaggioso per entrambe le società, perché i parigini si sono messi in rosa un offensive player già in grado di spostare gli equilibri. Come testimonia abbondantemente lo scudetto conquistato da assoluto protagonista all’esordio in Serie A, nella stagione 2022/23. Arricchito dal titolo di MVP del campionato. Ma con ancora grandi margini di miglioramento, tutti da esplorare. Mentre i partenopei hanno incassato una cifra sostanziosa: circa 75 milioni, coi bonus.
Impossibile resistere
Al di là della volontà di cambiare aria del georgiano, manifestata a più riprese, anche durante la gestione Conte con segni eclatanti (tipo, l’insofferenza all’atto delle sostituzioni), che l’ha spinto a forzare la cessione, con la squadra impegnata nella corsa al tricolore, appare evidente un dato incontrovertibile. Il Napoli continua ad essere saccheggiato al mercato dalla società parigina: Lavezzi, Cavani; Fabián Ruiz, lo testimoniano ampiamente. Ma un po’ tutte le società italiane subiscono il medesimo destino. Dunque, nella catena alimentare del calcio europeo, stanno assumendo con disarmante e costante puntualità il ruolo della preda, invece del cacciatore. Del resto, la “Football Money League 2025”, cioè la classifica redatta da Deloitte relativa ai club coi fatturati più alti al mondo, conferma un trend radicato negli ultimi tre anni: non ci sono italiane nella Top 10. Un dato emblematico, che certifica l’enorme divario scavato tra la Serie A ed il resto d’Europa. Per la cronaca, il Real Madrid, generando ricavi per 1,04 miliardi di euro, si è assicurato il primo posto. Completano il podio, Manchester City (838 milioni di euro) e Paris Saint-Germain (806 milioni).
In questo scenario, l’egemonia economica – che poi produce palesi riflessi sul mercato – si trasforma in un vero e proprio onere da sopportare, per chiunque non rientri nel gotha finanziario. Impossibile per la middle class con ambizioni di grandeur sopravvivere in un simile tritacarne. Destinate presto a finire quelle belle storie romantiche, troppo simili alla fiaba di Cenerentola che si presenta al gran ballo di palazzo e stupisce le bellone dell’aristocrazia, accaparrandosi l’ambito Principe. Una situazione che in soldoni si traduce nel freno allo sviluppo globale, mortificando alla lunga pure la competitività delle varie Leghe. Poiché queste realtà non potranno comportarsi da “big” se non per un breve lasso di tempo. Quindi dovranno monetizzare attraverso lucrose operazioni di trading, onde evitare di vivere al di sopra delle loro effettive possibilità, depauperando al contempo gli organici delle risorse migliori.
Politica e sportwashing
Torniamo per un attimo a quello che ha fatto il PSG con Kvara. Ovviamente non c’è nessun regolamento che vieta di sedurre un giocatore scontento di guadagnare “appena” 1.4 milioni di euro all’anno (un contratto decisamente troppo piccolo per un profilo già così grande), offrendogli una cifra monstre. Un faraonico ingaggio da 9 milioni netti a stagione, garantiti fino al 30 giugno 2029 l’ha persuaso a vendere l’anima al diavolo. Chiaro, tuttavia, che siamo in presenza di un comportamento quantomeno sgradevole: l’imposizione del modus operandi di uno degli Stati più potenti geopoliticamente parlando. Perché, diciamolo francamente, qui il calcio c’entra poco. Rimane un aspetto marginale della questione.
Se dalle parti della Torre Eiffel trasudano potenza devono ringraziare esclusivamente il Qatar Investment Authority. Sono passati una quindicina di anni da quando il fondo sovrano qatarino ha deciso di entrare nel calcio, impattando in maniera fragorosa sul calcio globale, utilizzandolo come strumento finanziario. Perciò si è gettato anima e corpo in questa avventura, spendendo un sacco di soldi. Allora, il club parigino non è mai stato il fine, bensì solo un mezzo per ampliare l’agenda degli investimenti. Ergo, la voglia di ritagliarsi un posto nell’élite pedatoria non era il focus principale. Anzi, si può dire che rappresentava il tassello iniziale di un progetto ampio e trasversale: politico oltre che sportivo.
In tal senso, puntare sul calcio, come dimostrerà ampiamente lo stesso Mondiale del 2021, assegnato dopo anni di investimenti sulle infrastrutture e di lavoro diplomatico, equivale a perseguire una precisa strategia, almeno secondo quanto affermato da Amnesty International. Ripulire l’immagine dell’Emirato, dove il rispetto di taluni Diritti Fondamentali resta una chimera. Insomma, stiamo parlando di puro sportwashing. D’altronde, i ricchi sono sempre più ricchi, tendenzialmente abituati a ottenere quello che vogliono. Per cui tutto ciò che si discosta dalla loro personalissima visione del mondo – sportivo, economico e sociale – va cancellato a suon di petrodollari.
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