Quando ho scritto “L’origine del mondo”, quindici anni fa, nel 2011 (ha debuttato nel 2011 ma ci ho lavorato per più di due anni) per raccontare l’attraversamento e la riemersione da uno stato di depressione acuta, qualcosa in me sapeva – in modo inconscio e profetico –, che quelli a venire sarebbero stati anni di isolamento psicologico e sociale profondo, dovuto a fattori diversi e in questo contesto non pertinenti.
Era già nell’aria questa “impossibilità”, diciamo pure “invivibilità” dei rapporti umani e dell’esistenza così come la sperimentavamo.
Ma nel 2011 era invece impensabile immaginare che nel 2020 la depressione sarebbe stata dichiarata dall’OMS la malattia più diffusa al mondo, superando il primato storico delle malattie cardiovascolari.
Come era impensabile, ma non lo è più, che sempre l’OMS ipotizzi entro il 2030 un’epidemia di depressione globale causata dalle più svariate emergenze sociali e intime: insicurezza economica, rifugiati climatici, povertà crescente, rapporto quotidiano con la paura, fine del mondo, assedio dell’attenzione da iperconnessione, incertezza, disistima, scompaginamento del tempo, incapacità di concepire esperienze estetiche non nostalgiche e anacronistiche rispetto al nostro presente.

Da questi dati, che rendono L’origine del Mondo violentemente contemporaneo, l’intento di riallestire questo spettacolo e per questa lucida e puntuta scelta, non posso che ringraziare profondamente il Teatro di Roma che ha accettato di produrlo e di presentarlo sul palco magnifico del Teatro Argentina.
E con lui, ringrazio profondamente Concita De Gregorio, Carolina Rosi e Mariangeles Torres che condividono questa ripresa: l’attualità, la necessità e l’urgenza di un ritratto esteticamente elaborato dello stato d’animo più diffuso al mondo, perché fra le varie piaghe che colpiscono oggi l’umanità, la depressione primeggia.
Ma non è detto che sia una condanna a morte.
Ed è questo che predica “L’origine del mondo”.
La depressione è una condizione mutevole.
Si attraversa.
Se ne esce.
Si può stare bene.
Non è impossibile vivere.
Lo scopo, il senso, la forma di una vita, si possono trovare, costruire, inventare o ri-trovare se persi.
È uno spettacolo a tesi: se c’è un problema, c’è la soluzione, se no non è un problema.
Non vi arrendete, anime in pena.
Continuate a cercare conforto.
Come diceva il buon Samuel Beckett:
«Non posso continuare. Bisogna continuare. Allora continuo.»
Ecco qui, di fronte a voi, una vita che si inceppa psichicamente.
E che poi, faticosamente, dolorosamente, grazie a un triplo carpiato dell’anima, assistita dai suoi meccanici, si salva. Anche quando si parte da laggiù. Da quel luogo lontanissimo, buio e insensato, che butta nero, in cui la depressione ci getta.

L.C.

Note di regia

Di fronte al tempo, alle crisi, alle mutazioni esistenziali.
Magari sotto pressione, impotente, spesso isolato.
Comunque inadeguato al rapporto ma lo stesso presente.
Decisamente depresso e si vede, uno fa fatica però vive, trova strategie, si inventa.
Si tratta di reagire.
O al meglio: adattarsi.
Come si sta di fronte alle cose, quando peggio del rapporto con Uno, c’è solo il rapporto con gli Altri?
Lo sappiamo? Lo possiamo sapere? Esiste un IO generico guida?
Non so. Non mi pare. Da qui non mi azzardo alla teoria.
Passiamo allora allo studio di un caso.
Concita vive in un temporaneo autoricovero, lo ha scelto e non esce più. Da qui, dalla tana, constata che lei di umano ne conosce veramente solo uno, convivono nello stesso corpo, e a volte si distrae anche da lui. Se lo perde, non lo capisce.
Questa relazione fluttuante e disattenta spesso fa si che si ritrovi a non essere contemporanea neanche di se stessa.
Un convivente, anche lui suo malgrado familiarizzato con l’umano di Concita, visto che ne dipende affettivamente, la richiama a lei e al tempo: la Figlia Mariangeles.
È lei che mantiene il mondo. Lei, Mariangeles, è il suo Atlante domestico.
Tanto che a volte uno si chiede chi ha messo al mondo chi, in questa faccenda.
Nella casa in cui si muove con sua figlia, temporaneamente rinchiuse in cerca di un senso latitante, appaiono figure della soglia, abitanti del dentro-fuori, che irrompono e agiscono. Figure queste, tutte animate dalla stessa volontà: tirarla fuori. Si avvicendano su scena strappandole alla loro intimità duettistica l’analista di Concita e sua madre Carolina. Gente che sta più fuori che dentro, ma a volte anche troppo dentro o troppo fuori.
Insomma, ma che ne sanno loro della fatica necessaria a snodare gli intrecci traumatici nascosti nelle geometrie del profondo? Eppure.

L’ORIGINE DEL MONDO
ritratto di un interno

scritto e diretto da Lucia Calamaro
con (o.a.) Concita De Gregorio, Carolina Rosi, Mariangeles Torres
scene, costumi e disegno luci Lucia Calamaro

produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale

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