Roberto Latini e Lucrezia Guidone incarnano la coppia più ambigua del teatro elisabettiano: Macbeth e Lady Macbeth. Jacopo Gassmann rilegge la tragedia shakespeariana come il lungo viaggio di un uomo alle radici del male o come il progressivo inabissamento di una coscienza nel vasto e inesplorato territorio del rimosso.

Note di regia – Jacopo Gassmann

È in un luogo enigmatico e oscuro, “dove nulla è se non ciò che non è”, che sarà ambientato il nostro Macbeth. Una valle del perturbante, un portentoso labirinto della mente, fatto di visioni improvvise e soglie da oltrepassare.
Sono diversi infatti i temi (e gli interrogativi ) che sottendono la nostra esplorazione del testo shakespeariano.
Innanzitutto, Macbeth è la storia di uno sguardo, uno sguardo che vede troppo perché si è nutrito della “radice della follia”.
La sua mente poderosa racchiude – come in un eterno corto circuito – passato, presente e futuro ed è questa stessa capacità di contenere e accelerare il tempo, di vedere e allucinare il futuro, varcando i confini del possibile e dell’impossibile che lo porterà, alla fine, alla sua stessa autodistruzione.
In questo luogo metafisico (che tanto ricorda la “Zona” di Andrej Tarkovskij), abitato da proiezioni fantasmatiche, dove il tempo stesso può essere piegato e i desideri più sfrenati sembrano potersi avverare, è come se il protagonista compisse un percorso a ritroso nella propria vita. All’inizio del testo lo incontriamo all’apice della sua virilità – il guerriero più rispettato della Scozia, “prediletto del Valore” – e lentamente lo vedremo tornare bambino. Un bambino sperduto, sazio di orrori.
Macbeth infatti è anche la storia di un trauma antico che attiene all’infanzia e che sembrerebbe avere origini nell’impossibilità dei due protagonisti (che Freud definiva parti complementari e inscindibili della stessa psiche) di poter procreare. Non a caso, la parabola di Macbeth potrebbe essere letta come un disperato e sanguinario tentativo di sublimare questa impossibilità andando a eliminare, occupandone il posto, tutti i padri (e i figli) che sembrano frapporsi lungo il suo cammino.
Macbeth è il lungo viaggio di un uomo alle radici del male. O meglio ancora, il progressivo inabissamento di una coscienza nel vasto e inesplorato territorio del rimosso. Una lunga giornata che procede inesorabilmente verso la notte, una notte in cui tutto va storto, in cui l’ordine delle cose è rovesciato e la natura stessa viene ferita e violentata. È a metà del testo infatti che troviamo un viatico al nostro progetto. Dopo la morte di Duncan, che non è solo un attentato alle leggi morali, politiche e dell’ospitalità, ma una vera e propria lacerazione del tessuto divino dell’umano, sarà Macduff ad ammonirci: “Affacciatevi alla camera, e una nuova Gorgone vi accecherà. Non mi chiedete di parlare.” È come se da questo punto in poi, un punto di non ritorno, il protagonista, attraverso la sua potenza distruttiva e visionaria al contempo, ci accompagnasse in una discesa agli inferi o lungo una galleria di immagini (e azioni) sempre più violente ed efferate che non dovrebbero mai essere evocate né venire alla luce. Una galleria dell’impensabile, dell’indicibile dunque, in cui entriamo a nostro rischio e pericolo.

Nota sul movimento – Sara Lupoli

Nel Macbeth di Jacopo Gassman, il movimento scenico non descrive, non racconta: è il residuo fisico di un pensiero che implode.  Un mondo di visioni in cui i corpi  agiscono negli interstizi della mente del protagonista,  che viaggia velocemente avanti e indietro sull’elastico del tempo. I corpi  sono come tracce di un’esistenza sfocata, sussurri visivi che scivolano dentro e fuori da un tempo che si dilata e si contrae, senza mai stabilizzarsi, nel fluire ondivago della psiche di Macbeth. Non esiste un qui e ora: i personaggi emergono come materie sospese tra l’essere e il dissolversi. Si stagliano lungo traiettorie che rispondono agli impulsi sotterranei del potere, alla forza disordinata di una mente che si smarrisce in se stessa. Ogni gesto è un frammento incompleto, qualcosa che comincia ma non si compie, una linea spezzata in cerca di significato.
L’azione si svolge in un groviglio di ossessioni,  apparizioni che si espandono fino a svanire, accelerazioni violente che spezzano l’illusione di continuità: i corpi oscillano come calamite sul confine instabile tra bene e male, tradendo ogni idea di progressione. Sono ombre che si ritrovano in loop, resti che si aggirano in un perimetro mentale dove il futuro è già accaduto e il passato non smette di colpire.
Il lavoro fisico in questo allestimento non cerca di spiegare, ma di creare uno spazio dove la mente di Macbeth diventa visibile, in tutta la sua fragile, terrificante instabilità. Un mondo di ombre che si dissolve nel momento stesso in cui prova a farsi materia.