A Napoli, al Teatro Bellini, è andata in scena la prima de “Il Grande Vuoto”, spettacolo decisamente intimo e toccante che andrà in scena fino al 10 novembre.
Il titolo sembra scontato e semplice da comprendere.
Tuttavia il vuoto di cui si tratta rivela in realtà l’insieme di una immensa moltitudine di sentimenti e pensieri di cui molti descritti all’interno di una drammaturgia scarna ma piena di immagini, e tanti altri ben radicati nell’esperienza personale di chissà quanti spettatori.
Una piacevole sorpresa per il pubblico che, entrando in sala, ha visto il palcoscenico occupato da un’improbabile utilitaria, grazie alla quale gli attori in scena lanciano verso la platea frammenti di vita quotidiana, al limite del reale, densamente conditi persino di una dolce e tenera ilarità.
A tenere la scena, insieme all’improbabile utilitaria, sono due coniugi anziani, ormai avviati verso l’ultima parte della loro vita insieme, che raccontano – con cenni leggeri e garbati – le manie, le fisime, i deficit fisici; gli anziani protagonisti mostrano le loro tenere interazioni, le ripetizioni maniacali proprie di chi ha varcato l’età adulta per entrare nel limbo silenzioso e impalpabile dell’età senile.
Uno spaccato di vita penetrante, una spina dolorosa per chi ha visto genitori o anziani percorrere lo stesso sentiero e ha assistito al progressivo degenerare della mente, della memoria, dell’autosufficienza, della dipendenza di persone care.
La protagonista è un ex attrice che non smette di ricordare il suo cavallo di battaglia (punto più elevato di una carriera mai definita fino in fondo) suscitando all’inizio l’ilarità dei figli: un monologo tratto da Re Lear, in occasione della partecipazione della loro compagnia ad un festival teatrale a San Pietroburgo.
La morbidezza e l’attenzione della regista (attrice protagonista in scena) accompagna per mano lo spettatore lungo un sentiero tortuoso che attraversa il dolore, per chi ne è protagonista e per coloro che ne seguono l’evoluzione anzi, l’involuzione.
L’ex attrice si contorna di ricordi appartenenti all’ex marito, alle sue tournée, ai suoi spettacoli, alla sua vita; i suoi figli non si arrendono all’evidenza degli effetti della malattia degenerativa della mamma e cercano, alla loro maniera, di addolcirne l’amarezza.
Cambi di scena a sipario aperto consentono di apprezzarne l’intelligente integrazione della scenografia con il testo.
Il progressivo riavvicinarsi dei figli alla madre; l’utilizzo di uno schermo a fare da filo rosso tra i vari momenti in cui – nel silenzio – la protagonista recita i gesti e gli atteggiamenti di una donna anziana la cui memoria è minata dalla malattia; l’accorto utilizzo di inquadrature il cui scopo ci appare immediatamente finalizzato a dare rispetto e discrezione alla privacy dovuta anche a coloro che hanno perso lucidità e presenza.
Tutto parla di dolore. Tutto racconta la triste sofferenza di una casa che si libera progressivamente da persone e si riempie di oggetti, anche inutili. Tutto sembra proiettare lo spettacolo verso un epilogo che vorrebbe vedere andar via anche la protagonista … eppure… la drammaturgia riserva la gradita sorpresa di una resurrezione della ex attrice che, indossati pochi abiti di scena (con l’aiuto dei due figli) vive la resurrezione del suo personaggio, proprio quello recitato nella famosa tournée a San Pietroburgo: il monologo di Re Lear.
Il teatro entra in gioco; e con minimi attrezzi, l’aiuto di una sola luce, l’effetto di un ventilatore basso, la protagonista ridà vita al suo cavallo di battaglia, in un sontuoso crescendo che offre al pubblico – in luogo di una fine – l’idea del successo di allora, un successo che – ripetendosi nella memoria confusa della protagonista – non ha ancora avuto fine: e probabilmente non finirà mai perché resterà nella memoria di chi vi ha preso parte.
di Silvana Ciaburro