Dopo il debutto francese e la presenza alla Triennale di Milano nella scorsa stagione, arriva a Napoli al Teatro Mercadante, il nuovo spettacolo di Romeo Castellucci, regista, creatore di scene, luci e costumi conosciuto in tutto il mondo per aver dato vita a un teatro fondato sulla totalità delle arti e rivolto a una percezione integrale dell’opera. Lo spettacolo è “liberamente ispirato” a un classico della letteratura teatrale francese, Bérénice che Jean Racine compose nel 1670, un monologo costruito per e su Isabelle Huppert.
Sinossi
Roma, anno 79 d.C., Tito tornato vittorioso dalla prima guerra giudaica, in seguito alla morte di suo padre Vespasiano, è destinato a succedergli come Imperatore romano. Durante la campagna bellica ha incontrato Berenice, principessa giudaica di Cilicia e se ne è innamorato; ricambiato, decide di tornare a Roma con lei promettendole di sposarla. Anche il suo amico e alleato Antioco, re di Commagene, è segretamente innamorato della principessa. Quando si avvicina il matrimonio tra Tito e Berenice, Antioco le rivela il suo amore e che desidera fuggire da Roma per non dover assistere alle celebrazioni nuziali. Tito, nel frattempo, viene a conoscenza dell’opposizione del Senato e del popolo romano alle sue nozze. Nella Roma imperiale, infatti, era malvista l’unione dell’imperatore con una regina straniera, inoltre il Senato repubblicano aveva in odio ogni forma di monarchia. Tito si vede costretto a rinunciare alle nozze con Berenice ma non avendo il coraggio di affrontare la discussione sulla loro separazione manda Antioco ad annunciare alla regina la decisione presa. Berenice si precipita negli appartamenti di Tito per rassicurarsi che non si tratti di un’incomprensione o di un equivoco – tanto è certa dell’amore di Tito per lei – e qui incontra alcuni Senatori venuti a congratularsi con lui per avere preferito la ragione di Stato separandosi da lei. Berenice trova Tito in lacrime. Disperata, vuole uccidersi. Tito ne è profondamente colpito. Berenice comprendendo la profondità dei sentimenti che Tito prova per lei, preferisce lasciare Roma e rinunciare all’amore della sua vita.
Note di regia – Romeo Castellucci
L’assoluta inattualità dei versi poetici di Racine, basati sul metro alessandrino, è ciò che lo rende contemporaneo. La disfunzione del linguaggio che oggi conosciamo è quella di Beckett, quella di Artaud, quella dei poeti, ma il nostro Poeta annulla il linguaggio per eccesso tecnico, ne forza la forma al punto che non c’è niente che valga a essere soltanto comunicato. Grazie alla costrizione del metro e della rima, Racine affida alla tecnica il compito di captare il significato. E confida più sulla pura forma della parola che sul suo contenuto, e la forma è ciò che resta del corpo, un corpo muto. I dodecasillabi sono qui gli strumenti del rabdomante che hanno il compito di estrarre il significato, un significato che proviene soltanto dall’esterno, dall’estraneo e non dalla semplice opinione, e non da un sapere a portata di mano. Ecco che, con Racine, la tecnica diviene l’arcana serra di fiori inauditi, perché non partoriti per via naturale.
In Bérénice il personaggio appare veramente soltanto al momento dell’uscita. L’uscita di scena, come un Trionfo, è terribilmente più importante dell’entrata. Cos’altro è “Berenice” se non una lunga, estenuata strategia di uscita? Occorre tutta un’arte della retorica, un’iconografia, un impossibile ricorso cristiano alla tragedia greca, per concepire un simile principio di movimento. Tutti i personaggi alla fine della tragedia si salutano senza versare una sola goccia di sangue; l’emorragia è interna. Ma anche io, spettatore, alla fine dello spettacolo – o della lettura – rimango senza parole. Dov’è il dramma? L’ho percepito ad ogni passo, ad ogni istante, ma non posso dire di avervi assistito.
Tutte le pose, la castità, l’educazione, il pudore, l’amore che ama – e per questo abbandona – servono qui a rappresentare il Teatro della Crudeltà dell’amore. Amore come Oriente, come Terra della Speranza. La castità come forma suprema di morbosità. Tutto è trattenuto e rallentato; in una parola, il campo del desiderio si apre davanti a noi in tutta la devastante virulenza del suo teatro. Le rinunce qui hanno più peso delle azioni, del sangue o degli accoppiamenti. Teatro paralitico. Oggetto unico: non credo esista nella drammaturgia occidentale di tutti i tempi qualcosa di più statico e snervante. Eppure si piange.
La parola diviene concentrica, come i fumi della droga, i dialoghi sono in realtà monologhi febbrili. “Bérénice” è un testo che non dice niente, e questo è la sua oblazione, la sua – in fondo – follia, la sua “arte-contemporanea”.
In scena, come stella fissa, Isabelle Huppert rappresenta Bérénice, la peculiare e ontologica solitudine del personaggio teatrale e della figura umana. Saranno presenti soltanto altri due attori, nelle vesti di Titus e Antiochus e diversi Senatori romani. Tutte le loro parole saranno incomprensibili, e impastate dalla stessa voce di Bérénice. Quasi tutti i suoni dello spettacolo – uditi e inauditi – sono generati dalla voce di Isabelle Huppert ed elaborati dall’artista Scott Gibbons.
Isabelle Huppert è la sineddoche dell’arte del teatro d’occidente, è l’attrice, ma anche l’attore, per definizione. Isabelle Huppert è “rappresentazione in quanto tale” ( vado a teatro per vedere Isabelle Huppert fare Berenice ), è fiamma che chiama a raccolta. È Teatro.