foto Antimo Piccirillo

Partiamo da una premessa: il Napoli dopo la trasferta di Bologna, sicuramente l’avversario più in forma del momento, rimane a meno tre in classifica dalla capolista Inter. Questo ovviamente non significa voler passare un colpo di spugna sul problema, ormai ricorrente, che assilla la squadra. Palese, infatti, il calo nei secondi tempi, rispetto alla brillantezza cui ci ha abituato nelle prime frazioni di gioco. Insomma, tornati in campo dopo la pausa, gli uomini di Conte non hanno creato quasi niente a livello offensivo: solo pericoli potenziali, tutti sfumati sulla trequarti. Quasi doveroso allora aspettarsi qualcosina in più dalla principale contender allo scudetto.

Vero che i felsinei hanno messo sotto gli azzurri per lunghe fasi. La scelta di Italiano – pressare altissimo, con un approccio uomo contro uomo – ha incanalato il match su una precisa direttrice tattica; normale dunque abbassare notevolmente il baricentro, scegliendo di non correre rischi eccessivi. Magari forzare pure la giocata sul lungo, scavalcando l’aggressività dei padroni di casa. Andando a cercare subito il riferimento là davanti, ovvero far valere la forza fisica di Lukaku al cospetto della feroce riaggressione bolognese. Il belga ha accettato con coraggio di lavorare in costante inferiorità numerica, gestendo contemporaneamente la marcatura di Lucumí e le preventive predisposte da Beukema. 

Abbassarsi inibisce la fluidità

Del resto, sapevamo che il calcio del tecnico salentino comporta benefici e rischi, specie le volte in cui baratta il controllo degli spazi con un atteggiamento tattico conservativo, consapevole di non poter pareggiare l’intensità nel pressing esercitato dal Bologna. Ergo, opta semplicemente per contrapporgli la capacità di palleggio dei propri centrocampisti, con Lobotka stabilmente vicino a Rrahmani e Juan Jesus nella risalita dal basso. In pratica, un maggiore controllo del pallone, cui fa da contraltare la fatica tremenda a rendersi temibile in attacco. Non è una critica questa, anzi. Finora il campionato va considerato ammirevole. Però in questa fase della stagione appare evidente la difficoltà nel lasciare il segno nei secondi 45’ dei partenopei.

Presumibilmente, fare grande densità centrale limita poi la fluidità posizionale, architrave della filosofia attuale di Conte. Perché se il pivote slovacco scende al fianco dei centrali, determina l’allargamento dei terzini. Questi, di conseguenza, spingono gli esterni ad alzarsi. Ecco che scatta il principio cardine della fase offensiva: rotazioni continue e ricerca del “terzo uomo”. In definitiva, l’allenatore pretende (giustamente…) che la squadra resti stretta e corta. Ma se si schiera a difesa della propria trequarti, diventa complicato coprire le distanze con efficacia e compattezza, per cui l’ultimo quarto di campo continua a essere un grosso problema per la squadra partenopea.

In questo scenario non bisogna trascurare un piccolo particolare: il Bologna ha espresso un innegabile dominio territoriale. Al culmine del quale ha colto di sorpresa il lato destro della difesa napoletana in una classica situazione dove prima spinge l’avversario fino all’area di rigore, facendo scorrere egregiamente il pallone. Quindi, imbuca in verticale alle spalle della linea difensiva: Odgaard arriva sul fondo, e mette dentro un bell’assist, che Ndoye riesce a deviare col tacco, cristallizzando quello che rimarrà una delle segnature più belle di questa Serie A. Tuttavia, al di là del gol, la sua produzione in termini di conclusioni verso Scuffet si limita al colpo di testa di Holm in pieno recupero, respinto miracolosamente in volo plastico dal portiere friulano.

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