Già apprezzato in Italia per il suo Promenade de santé, l’autore Nicolas Bedos, classe 1979, figlio d’arte, pluripremiato acclamato attore, regista, sceneggiatore della nuova scena francese ed europea torna sui palcoscenici italiani grazie a una coppia formidabile di interpreti: Linda Gennari e Antonio Zavatteri. La regia di Davide Livermore si avvale della calzante traduzione di Monica Capuani. Accostando sempre passato incombente e presente sfuggevole, Bedos, con la sua scrittura solo apparentemente semplice, racconta con grande empatia, l’animo umano in tutte le sue contraddizioni.
Un uomo e una donna. Un trauma: qualcosa è successo nel passato. Lui non ricorda, lei lo assiste. Il dialogo tra loro è una continua spirale, un ricominciare da capo e fare, forse, qualche passo avanti nella comprensione e nella memoria. Non ci sono vie d’uscita, solo le parole. Parole confuse, quelle di lui, istrione appassionato a volte cattivo. Parole chiare, pazienti, quelle di lei, che lo sprona, lo mette spalle al muro, lo richiama alla sua responsabilità.
Cosa è veramente successo? Chi sono quest’uomo e questa donna, che sembrano conoscersi molto più di quel che raccontano? Perché questo grumo di dolore?
Sembra quasi non esserci nulla, in questo piccolo dramma familiare e quotidiano, ma bastano i meravigliosi ritratti di due esseri umani alle prese con la vita per rendere Il viaggio di Victor, nella sua asciutta e tenera incisività, uno straordinario testo.
Bedos con le sue opere, già diventate film – come l’apprezzatissimo La belle époque, con un cast importante, in cui spiccano Fanny Ardant e Daniel Auteil – indaga senza timidezze i risvolti del sentimento. A partire dalle mille sfumature dell’amore.
Amori che si consumano, si sfaldano nel tempo, oppure che resistono alle crisi, ai tradimenti, ai piccoli e grandi mutamenti della vita.

 

Intervista a Davide Livermore – Andrea Porcheddu

Questo spettacolo segna un simbolico passaggio dalle tue ultime regie, su testi prevalentemente di tragedia classica al dramma borghese, che è anche un passaggio da un “esterno” a un “interno”, da lavori corali a uno con due interpreti…

Partiamo dalle scene. La scelta che ho fatto, dal punto di vista scenotecnico, assieme a Lorenzo Russo Rainaldi, è già un primo passo nella narrazione. Non è astrazione, non è un fatto “estetico”, ma un segno narrativo. Tenendo sempre presente, come per qualsiasi altro testo su cui ho lavorato e lavoro, la lezione di Aristotele e il concetto di mimesi così come lui lo esprime. Mimesi come imitazione del vero ma sempre un po’ “sbagliata”, in una prospettiva che consente conseguentemente di passare da una “soggettività” – dell’attore, del regista o della narrazione – a una “oggettività” che possa abbracciare, e dunque coinvolgere, tutto il pubblico.
Per quel che riguarda, in particolare, il testo di Bedos, mi piace sottolineare che questa storia racconta una ricerca di memoria: allora Il “non-luogo” della scena è anche riflesso di una sorta di immagine di un personaggio che non riconosce il mondo attorno, che non sa più vedere.
Anche la modalità di recitazione, allora, deve essere riconoscibile come qualcosa di “vicino”, di “uguale-ma-sbagliato”. Richiamare il vero ma distanziandosi dal reale. Così che ognuno, nel pubblico, possa sentirsi coinvolto, proiettato all’interno di quello spazio.
Quel che cerco è l’effetto che mi ha fatto vedere alcuni bozzetti di lavoro di Leonardo da Vinci al British Museum. Sono disegni incompiuti ma, al tempo stesso, completissimi: e si completano proprio grazie al coinvolgimento di chi guarda. Un coinvolgimento che arriva fino al punto di far vedere il movimento anche in una immagine fissa. Ecco, con il teatro dobbiamo fare la stessa cosa: creare lo stesso coinvolgimento di ogni singolo spettatore. E la mimesis, in guisa aristotelica, è allora un fondamento del mio approccio ai testi, che si ricollega anche al lavoro fatto in passato sulla tragedia.

E hai lavorato su questo testo, che potrebbe apparire a prima vista come una semplice commedia sentimentale, scavando in profondità, facendo emergere temi di grande forza…

Siamo partiti dal Tofu. Non è una battuta. Mi spiego: più leggevo questo testo, più mi capitava di sentire il desiderio di provare qualcosa che fortunatamente non mi è capitata nella vita. Ossia di andare alla ricerca dell’anima di un figlio che non c’è più. Qualcosa che, secondo me, richiede molto, moltissimo, a chi si trova a vivere una simile, drammatica situazione. Penso di poter dire che le persone che hanno il desiderio o il bisogno di collegarsi a qualcosa di spirituale, di ancestrale, di spiritico, devono far vibrare le corde della propria anima in maniera sottile, finissima. Ecco allora la metafora del Tofu: è un episodio della mia vita. Passai due mesi a Tokyo, per una “Gazza ladra” con il maestro Alberto Zedda, e visto che ero in Giappone volli superare un mio limite, ossia saper dare un gusto al Tofu. In Giappone ci sono tantissimi tipi di Tofu, ma io non sentivo le differenze di sapore. Proprio come non sentivo tante altre cose della mia vita, a partire, proprio, dalla presenza di altre anime. Ecco, in questa prospettiva ci può essere, per ciascuno di noi, un percorso di autoeducazione. È possibile pretendere, dalla nostra vita, di andare in una dimensione simile a quello che si chiama il “ricercare musicale”. Cosa è? In musica, dato un tema e una tonalità, si può ricercare, arricchire ogni frase con grandissimo virtuosismo, per sviscerare un giro armonico e per poi ritornare al tema iniziale, ma con il profondo arricchimento acquisito grazie alla ricerca. Ecco, anche nella vita bisogna andare in profondità, pretendere cose che pure sappiamo di avere ma dobbiamo ancora ricercare. Non ci possiamo bastare, non bastiamo a noi stessi: proprio come questi personaggi di Bedos non si possono bastare di fronte al dramma che hanno vissuto. La vita a volte ci costringe a fare cose che il nostro “io”, il nostro “ego” normalmente non farebbe mai. È per questo che abbiamo bisogno del dolore, per questo ha senso la ricerca che il dolore ci fa fare nella vita. Forse è qui il senso profondo di questa storia.

Ed è così che il testo dell’autore francese diventa, in scena, nella tua lettura, un lungo compianto…

È un requiem, sì. Si tratta di creare lo spazio per un’anima. Ed è qualcosa che mi colpisce molto. Noi possiamo farlo: ciascuno di noi può creare lo spazio per il ricordo, per un’anima. Possiamo avere la forza di metterci in contatto con chi non c’è più. Possiamo parlare con chi se ne è andato. E nel far questo possiamo creare uno spazio nel nostro cuore, nella vita, dove quell’anima può stare, può finalmente risiedere nella nostra considerazione, nel ricordo, nell’amore. In una bellissima seduta spiritica tra le tante fatte da Victor Hugo, dal 1853 al 1855 nell’isola di Jersey – e che conosciamo grazie alle trascrizioni di Monsieur Auguste Vacquerie – un’anima si manifesta come “Ombra del Sepolcro”: dice tante cose meravigliose, ma una di questa mi ha colpito: “a chi resta, resta il dolore; a chi parte resta l’amore”. Per questo amore serve uno spazio di comunicazione. Noi vivi, noi che restiamo dobbiamo creare un luogo nel nostro tempo per vivere anche l’amore, oltre il dolore.

Come hai lavorato con gli interpreti? Da un lato un’attrice che è già stata in tuoi spettacoli in passato, come Linda Gennari; dall’altro un attore che incontri invece per la prima volta, Antonio Zavatteri…

Cerco sempre di seguire una poetica, ovvero il desiderio di restituire la verità di un testo coinvolgendo tutti i sensi possibili. L’udito non può che essere interconnesso con la vista, e anche con le emozioni, ossia con lo stomaco, e con la ragione. Detto ciò, non mi faccio problemi di aver lavorato tanto con un artista o meno con un altro: un direttore d’orchestra non si chiede se ha già lavorato con il primo violino. Abbiamo a che fare con dei professionisti: ci troviamo e lavoriamo assieme. Iniziamo assieme questo viaggio nella ricerca, assieme cerchiamo quello spazio per un’anima, di cui dicevamo. E in questo spazio si piange, si ride, si trova l’amore. E si commemora la vita che è stata, per incamminare quell’anima verso la luce.

Cosa chiedi al pubblico?

Mi chiedo semmai cosa io posso dare o sto dando al pubblico. So in cuor mio che sto dando un pezzo della mia vita. E questa volta invito gli spettatori e le spettatrici a vedere un bellissimo testo di teatro contemporaneo, con due grandi artisti in scena. Per riflettere sui nostri lutti e provare a pensare alle persone amate che non ci sono più in piena gioia e leggerezza, ritrovando ricordi, risate e dolori…

 

IL VIAGGIO DI VICTOR
di Nicolas Bedos
versione italiana Monica Capuani
regia Davide Livermore
con Linda Gennari, Antonio Zavatteri
e con Diego Cerami in video
abiti Giorgio Armani
scene Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi
video maker D-Wok
disegno sonoro Edoardo Ambrosio
luci Aldo Mantovani
foto di scena Federico Pitto

produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova

 

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