La strage del Rapido 904 o strage di Natale fu l’attentato dinamitardo attuato il 23 dicembre 1984 nella grande galleria dell’Appennino, subito dopo la stazione di Vernio, contro il treno rapido 904, proveniente da Napoli e diretto a Milano[3]. L’attentato fu una replica di quello condotto dal terrorismo neofascista nel 1974 ai danni del treno Italicus[4]. Per le modalità organizzative e per i personaggi coinvolti, è stato indicato dalla Commissione stragi come un evento antesignano e precursore dell’epoca della guerra di mafia dei primi anni ottanta del XX secolo.

Al di là delle motivazioni specifiche, la responsabilità dell’atto è da ascriversi alla mafia siciliana, Cosa nostra. In particolare, la Relazione Pellegrino in conclusione del capitolo denominato Il crocevia eversivo e la strage del Treno 904, sviluppando un parallelo tra le dinamiche, i protagonisti e gli obiettivi delle due stragi di Bologna (1980) e del Rapido 904 (1984), afferma che: «Restano non pienamente chiariti i contesti, probabilmente diversi, in cui le due stragi sono venute ad inserirsi e i più ampi disegni strategici cui le stesse sono state funzionali. In tale prospettiva apprezzabile – ma non pienamente appagante – appare l’ipotesi avanzata in sede giudiziaria con specifico riferimento alla strage del treno 904 secondo cui la stessa sarebbe stata una reazione di Cosa nostra all’attivarsi della collaborazione di alcuni pentiti “storici” come Buscetta e Contorno; un tentativo cioè dell’associazione criminale di rinsaldare, mediante la minaccia di un salto qualitativo della sua azione offensiva, legami istituzionali che sembravano allentarsi o comunque posti in discussione dall’attivarsi di una nuova stagione, che poneva in crisi un antico patto armistiziale. In tale prospettiva la strage di Natale del 1984 sembra preannunciare una stagione successiva che abbraccia eventi come le stragi di Capaci e via D’Amelio e gli attentati dell’estate del 1993[5].

L’attentato

L’attentato venne compiuto domenica 23 dicembre 1984, nel fine settimana precedente le feste natalizie. Il treno, trainato dal locomotore E.444.030, era pieno di viaggiatori che ritornavano a casa o andavano in visita a parenti per le festività. Intorno alle 19:08, il convoglio fu dilaniato da un’esplosione violentissima mentre percorreva la Direttissima in direzione nord, all’interno della Grande galleria dell’Appennino, in località Vernio, dove la ferrovia procede diritta e la velocità dei treni in transito supera solitamente i 150 km/h. La detonazione fu causata da una carica di esplosivo radiocomandata, posta su una griglia portabagagli del corridoio della 9ª carrozza di seconda classe, a centro convoglio: l’ordigno era stato collocato sul treno durante la sosta alla stazione di Firenze Santa Maria Novella.

Al contrario del caso dell’Italicus, questa volta gli attentatori attesero che il veicolo penetrasse nel tunnel per massimizzare l’effetto della detonazione: lo scoppio, avvenuto a quasi metà della galleria, provocò un violento spostamento d’aria che frantumò tutti i finestrini e le porte. L’esplosione causò 15 morti e 267 feriti[3]. In seguito, i morti sarebbero saliti a 16 per le conseguenze dei traumi[3][6]. Venne attivato il freno di emergenza, e il treno si fermò a circa 8 km dall’ingresso Sud e a 10 da quello Nord. I passeggeri erano spaventati, e a questo si affiancava il freddo dell’inverno appenninico. A chiamare i soccorsi, utilizzando un telefono di servizio presente in galleria, fu il controllore Gian Claudio Bianconcini, il quale era al suo ultimo viaggio in servizio e, pur ferito anch’egli, era sopravvissuto all’esplosione.

Il Presidente del Consiglio Bettino Craxi disse amaramente «S’è voluto sporcare di sangue questo Natale»[4], mentre il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, nel suo ultimo messaggio di fine anno, commentò: «Cinque stragi abbiamo avuto, tutte lo stesso marchio d’infamia, e i responsabili non sono stati ancora assicurati alla giustizia. I parenti delle vittime, il popolo italiano non chiedono, come qualcuno ha insinuato, vendetta, ma chiedono giustizia»[4]. Il Capo dello Stato aggiunse che i servizi segreti erano stati rinnovati: «Mi hanno detto che vi sono persone molto valide, oneste. Gli antichi servizi segreti erano stati inquinati dalla P2, da questa associazione a delinquere. Ebbene i nuovi servizi segreti cerchino di indagare, non si stanchino di indagare, non si fermino ad indagare in Italia, vadano anche all’estero, perché probabilmente la sede centrale di questi terroristi si trova all’estero»[4].

Giorgio Bocca, commentando la strage, scrisse: «Che cosa è accaduto di nuovo nella Repubblica italiana in questi ultimi anni e mesi? È accaduto che la macchina democratica piano piano ha ricominciato a funzionare. Sono finiti in galera i golpisti della P2, i bancarottieri golpisti di Sindona, i generali ladri alla Giudice, i capi di servizi segreti pronti alle deviazioni. E sono stati inferti colpi duri alla mafia e alla camorra. In sostanza lo Stato democratico ha colpito duramente tutti gli alleati reali e potenziali dell’apparato repressivo. E questo incomincia a essere un motivo, se non dimostrabile in modo matematico, certo credibile a livello di politica repressiva. Al fondo di tutte queste storie sotterranee c’è sempre anche una ragione organizzativa. L’apparato a cui è “burocraticamente” affidato il compito di mantenere lo “status quo”, se sente crollare attorno a sé gli strumenti del suo controllo e del suo potere, può reagire alla sua maniera: feroce, irrazionale ma non priva di tragici effetti»[7].

I soccorsi

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Bianconcini, sebbene ferito da alcune schegge nella nuca, organizzò anche i primi soccorsi con l’aiuto di altri passeggeri, nonostante il freddo e il buio, dato che i neon di emergenza della galleria, oltre a non produrre molta luce, avevano poca autonomia e smisero di funzionare dopo poco tempo. All’organizzazione dei primi soccorsi collaborarono anche il capotreno Paolo Masina e il restante personale, tra cui Vittorio Buccinnà e Francesco Bosi (al personale venne conferito un encomio solenne e una medaglia d’oro). I soccorsi ebbero difficoltà ad arrivare, in quanto l’esplosione aveva danneggiato la linea elettrica e la tratta era rimasta isolata, e oltretutto il fumo dell’esplosione bloccava l’accesso dall’ingresso sud, dove si erano concentrati inizialmente i soccorsi, che impiegarono oltre un’ora e mezza ad arrivare. I primi veicoli di servizio arrivarono tra le 20:30 e le 21:00, senza sapere cosa fosse successo e senza disporre né di un contatto radio con il treno coinvolto né di un ponte radio con le centrali operative periferiche o quella di Bologna. I soccorritori, una volta sul posto, parlarono di un «fortissimo odore di polvere da sparo».

Venne impiegata una locomotiva diesel-elettrica, guidata a vista nel tunnel, che fu per prima cosa usata per agganciare le carrozze di testa rimaste intatte, su cui furono caricati i feriti. Alla spedizione era stato assegnato un solo medico. L’uso della motrice diesel rese però l’aria del tunnel irrespirabile, per cui servì usare bombole di ossigeno per i passeggeri in attesa di soccorsi. I feriti vennero portati alla stazione di San Benedetto Val di Sambro, prima stazione al di fuori della galleria in direzione di Bologna, seguiti subito dopo dagli altri passeggeri illesi. Uno dei feriti, una donna, venne trovata in stato di shock in una nicchia della galleria e fu portata a braccia fino alla stazione di Precedenze (che si trova circa a metà della galleria e veniva impiegata per il servizio passeggeri fino agli anni ’60, quando fu trasformata in posto di comunicazione, ruolo che svolge tuttora).

Le prime cure ai feriti vennero offerte presso la stazione di San Benedetto; quelli più gravi furono portati all’Ospedale Maggiore di Bologna da una quindicina di ambulanze predisposte per il compito, che viaggiarono scortate da Polizia e Carabinieri. Le cure ai feriti leggeri durarono fino alle cinque di mattina del 24 dicembre. Venne allestito rapidamente un ponte radio e la Società Autostrade mise a disposizione un casello riservato al servizio di emergenza. Le ambulanze che portavano i feriti più gravi a Bologna si fecero largo nel traffico cittadino grazie a una razionalizzazione delle vie di accesso studiata proprio per i casi di emergenza. Per ultimi furono trasportati i morti; fortunatamente la neve cominciò a cadere solo durante questa ultima fase.

Il piano di emergenza era frutto delle misure predisposte dopo la strage del 2 agosto 1980; questa operazione fu la prima sperimentazione del sistema centralizzato di gestione emergenze costituito a Bologna. Nonostante le condizioni ambientali estremamente avverse, l’opera di soccorso e l’operato dei soccorritori furono ammirevoli per l’efficienza dimostrata, tanto che, pochi anni dopo, il servizio centralizzato di Bologna Soccorso diventò il primo nucleo attivo del servizio di emergenza sanitaria nazionale 118. Alla grande abilità e organizzazione delle forze dell’ordine e dei soccorritori si aggiunse anche una certa fortuna relativamente alle condizioni meteorologiche, in quanto, come già detto, iniziò a nevicare solo quando ormai non rimanevano più sopravvissuti da evacuare e il vento soffiò i fumi dell’esplosione verso Sud, rendendo possibile l’accesso dal lato bolognese della galleria, da cui arrivavano i soccorsi, e facendo in modo che le bombole in dotazione ai vigili del fuoco, con solo mezz’ora di autonomia, fossero sufficienti.

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